Impossibile trovare una via di mezzo. O santo o eretico, o innovatore o cialtrone, o condottiero o reietto. Sì perché Gigi Maifredi è uno di quei personaggi che i tifosi di una squadra di calcio o hanno amato alla follia o hanno detestato con buona parte delle proprie forze. E a far pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra non sono stati solo i risultati, la sua granitica fede per la zona e la volontà di imporre sempre il proprio gioco agli avversari. No, a trasformare il suo cammino in una lunga salita ci ha pensato soprattutto il suo eccesso di autostima.
La sua carriera da allenatore inizia nel 1976, quando si siede sulla panchina del Real Brescia. Il purgatorio, però, dura poco. Dopo soli due anni, infatti, ecco la chiamata del Crotone in Serie C. Peccato che quello che doveva essere il suo trampolino di lancio si trasforma ben presto in un lungo peregrinare fra dilettanti e semiprofessionisti. Almeno fino a quando Corioni, bresciano come lui, non lo chiama a Bologna. Ed è qui che Gigi compie il primo (e forse ultimo) grande miracolo della sua carriera centrando la promozione dalla B alla A al primo tentativo. Gli anni in rossoblù (dal 1987 al 1990) esaltano la critica che ribattezza il suo gioco “Calcio Champagne”. Un complimento di cui andar fieri se non fosse per quell’insolente riferimento alla sua professione, il rappresentante di Clicquot, grazie alla quale Maifredi aveva tirato avanti durante gli anni della gavetta. Durante l’esperienza bolognese il mister di Lograto attira su di sé l’interesse dei club più importanti dello Stivale. Ad accaparrarselo, alla fine, è la Juventus che dopo il quarto posto ottenuto l’anno prima da Dino Zoff (condito però da una Coppa Italia e una Coppa Uefa) vuole aprire un nuovo ciclo improntato sul calcio d’attacco. Quello di Maifredi, appunto. Gigi coglie la palla al balzo e, dopo aver fatto montare nel centro sportivo della Juve una gabbia 40×20 dove provare gli schemi, decide di non nascondersi dietro un dito. “Prima vendevo panettoni, adesso vendo idee – dice presentandosi ai tifosi bianconeri – non ho mai visionato una squadra avversaria, sono gli altri a doversi preoccupare di noi. La zona è quella cosa che prima tremi e dopo vinci”. E a chi gli chiede qual è il segreto per vincere, Gigi risponde: “Il giovedì dico: fortuna, dammi la formazione-tipo che al resto penso io. Sono un allenatore di calcio. Bravo”. Purtroppo per lui, tuttavia, autostima e risultati non vanno a braccetto. La gabbia 40×20 rimane pressoché inutilizzata, mentre la Juve conclude il campionato al settimo posto. Una classifica a dir poco anemica che, per la prima volta dopo 28 anni, lascerà i bianconeri fuori dalle coppe europee. L’esonero è nell’aria, ma Maifredi non ci sta e dà la sua spiegazione: sono stato allontanato “perché mi ero rifiutato di firmare il triennale che mi aveva propostol’avvocato Agnelli. Ma il personaggio è così, io sono così. E ho ancora tanta voglia di insegnare pedate”.
Sarà, ma da quel momento non riuscirà più a sedere su una panchina fino alla fine della stagione. Per lui ci saranno solo esoneri o dimissioni. Un copione sempre uguale a se stesso che si ripete con Bologna, Genoa, Brescia, Pescara, Venezia, Esperance Tunisi, Albacete (B spagnola), Reggiana. Ma più gli insuccessi si moltiplicano, più Gigi si autoconvince delle proprie idee. “Mi hanno denigrato, mi hanno distrutto senza conoscermi ma adesso lavorerei anche gratis – si lamenta – chi nasce allenatore allenatore muore, non sono cambiato ma sono migliorato (…) la zona è propositiva e il resto è distruttivo. Senza quelli come me, Sacchi e Zeman, oggi continueremmo a difendere l’uno a zero” E ancora; “Quattro promozioni in sei anni, il Bologna e la Juve, un segno l’avrò pure lasciato”.
Perché qualcuno si ricordi di quel segno, però, bisogna aspettare il dicembre del 2004 quando Lotito, a pochi giorni dalla stracittadina, pensa seriamente all’ex allenatore della Juve per sostituire Mimmo Caso. I giornali fiutano l’affare e danno l’accordo ormai per scontato. Lo stesso Maifredi, smanioso di ritornare ad allenare, si trattiene a stento e parla già da allenatore biancoceleste. “Io credo nel dialogo, e so farmi ascoltare: magari perché ho questo vocione potente – dice – la Lazio è una grande squadra demotivata, qui bisogna rivitalizzare. Nel derby non si parte battuti. Disoccupato? Sì, ma in questi anni ho visto milioni di videocassette e centinaia di partite. Ho letto un’intervista a De Niro che non ha girato film per tre anni. Dice che quand’è tornato sul set non si è mai sentito tanto carico”.
Ad aspettarlo a braccia aperte (dopo una parentesi che lo aveva portato a brevettare lucchetti), tuttavia, c’è solo il set di “Quelli che il calcio”, dove si siederà sulla panchina del Maifredi Team. Niente sfide che mettono a dura prova le coronarie o partite dove ci si gioca la vetta del campionato, solo gare di beneficenza e quel giochino crudele di replicare i gol segnati da altri. Eppure Luigi non riesce a darsi pace, continua a ripercorrere i momenti chiave della sua carriera, racconta addirittura che Dino Viola tentò di strapparlo alla Juve di Boniperti proponendogli un quinquennale: “Non vada a Torino, non è il suo ambiente, non si troverà bene, mi disse il presidente. Forse aveva ragione. Non posso essere diventato scarso di colpo, se io fossi un presidente il signor Maifredi lo andrei ancora a cercare, ma senza accontentarmi dei giudizi degli altri”. Col tempo si rassegnerà al ruolo di opinionista e, proprio in questa veste, ci regalerà forse la sua migliore performance.