Comunardo Niccolai – Quando l’autogol diventa un’opera d’arte

NiccolaiIl primo calcio al pallone è un gol. Tutti i bambini del mondo hanno immaginato di segnare alla loro prima pedata. È proprio questo che ti frega e ti convince che sia lo sport più bello del mondo: sua Maestà il Gol. L’essenza del football sta tutta lì, in quell’attimo che divide inferno e paradiso. Soltanto dopo arriva il 4-4-2, la diagonale, il pressing e la preparazione atletica. Eppure tutti i bambini del mondo, anche crescendo, continuano a sognare quella sensazione da paradiso terrestre che solo una rete può darti. In molti altri però, col tempo, hanno dovuto obbedire agli ordini dell’allenatore e si sono accontentati di un ruolo diverso: provare almeno ad evitare l’inferno, indossando una maglia che va dall’1 al 6. Poi c’è qualcuno per cui le porte di inferno e paradiso si somigliano a tal punto da non poter esser distinte. Un nome su tutti: Comunardo Niccolai, un artista dell’autorete, un calciatore che è riuscito a rivoluzionarne il concetto stesso. Perché se è vero che esiste il gol alla Del Piero e il cucchiaio alla Totti, è altrettanto vero che l’autogol è alla Niccolai.

Stopper classe ’46 e Campione d’Italia con il Cagliari nel 1970, Niccolai (che partecipò anche alla spedizione italiana ai mondiali messicani dello stesso anno) veniva chiamato dai suoi compagni di squadra “Agonia”, per la sua magrezza ai limiti del patologico. Apparteneva a un calcio profondamente diverso da quello di oggi, in cui non esistevano mental coach pronti a psicanalizzare comportamenti e prestazioni individuali. Un bene per lui, altrimenti qualcuno pronto a curare il suo subconscio e il derivante conflitto con la figura paterna l’avrebbe trovato di sicuro. Già, perché suo padre era un portiere del Livorno e destino volle che, oltre ai tifosi, fossero proprio i portieri “di famiglia” a subire sulla propria pelle le conseguenze di quel suo istinto autolesionista.

La sua “impresa” più memorabile, considerata anche l’importanza della partita, risale al 15 marzo 1970. Quel giorno il Cagliari arriva al Comunale di Torino per difendere primato e vantaggio in classifica sulla Juventus. Il risultato non si schioda dallo 0-0 e allora ci pensa lui. Si lancia, uscendo dallo specchio della porta, su un innocuo traversone che arriva dalla destra, inarca la schiena proteso incontro alla sfera e, con un tocco soffice e beffardo, “spizza” la palla disegnando una traiettoria che sfila a pochi centimetri dal palo, prima che Albertosi possa realizzare l’accaduto e mandare al diavolo il suo numero 5. Non un inedito però: “Niccolai era la mia bestia nera – ricorda il portierone – , mi faceva gol tutti gli anni. Almeno un’autorete a stagione”. Poi ci penserà Riva a mettere al sicuro partita e scudetto (finirà 2-2 tra mille colpi di scena), ma “Rombo di tuono” ancora ricorda le prodezze di quel suo folle compagno di squadra: “Niccolai ne ha fatte poche di autoreti, però tutte belle. Lui non si sprecava alla deviazione, una volta ha driblato pure il nostro portiere per fare gol”.

È vero, il record degli “autobomber” è di Riccardo Ferri con 8 marcature, le 6 di Comunardo però hanno tutto un altro stile. E lui stesso le ricorda con orgoglio, senza l’ombra minima del pentimento: “Credo di averne segnati 5 o 6. Forse quello di Bologna fu più bello degli altri: evitai anche il portiere, Albertosi, e feci un gol da attaccante puro. Ne segnai uno anche nella ‘partita Scudetto’ contro la Juventus, uno a Catanzaro nella 300ª gara arbitrata da Concetto Lo Bello, uno a Perugia, uno contro la Roma e uno a Firenze, ma quella volta non avevo davvero nessuna colpa perché il portiere, al posto di parare, abbassò il braccio e la palla mi rimbalzò addosso. D’altra parte, i miei interventi erano spesso un po’ spericolati e capitava che arrivassi sulla palla scoordinato”. Già, capitava.

Inoltre leggenda vuole che quando Scopigno, suo allenatore al Cagliari, lo vide inquadrato alla tv durante gli inni nazionali esclamò: “Tutto mi sarei aspettato meno che vedere Niccolai in mondovisione”. Giampaolo Murgia, giornalista che vide quella partita con il mister, ha sempre fornito una versione diversa dell’accaduto, se possibile anche più crudele: “In realtà, Scopigno non pronunciò la famosa frase. Ero con lui nella sede sociale di via Tola. Prima del fischio d’inizio si videro gli azzurri schierati uno dopo l’altro. Quando fu la volta di Nascondereiccolai, Scopigno, che era seduto, si alzò e per un attimo spense il televisore borbottando: ‘Ma si può?!’. Una battuta per nascondere commozione e… orgoglio. Niccolai era il cucciolo della compagnia, il suo pupillo”.

Se gli chiedete qualche ricordo particolare dei suoi anni di carriera vi risponde così: “Un giorno uno mi chiese: ‘Come va?’. E io: ‘Si tira avanti’; intervenne il dottor Fronzi, medico della squadra: ‘Mi sembra che tiri indietro, te!’. Sono passati più di trent’anni, ora ci rido su, ma allora quegli autogol erano un dramma, sembrava ne segnassi 10 a stagione… Però feci anche 4 reti dalla parte “giusta”, di cui una contro la Fiorentina: nella porta viola c’era Albertosi… Certo, mi piacerebbe essere ricordato per il Mondiale ’70, per lo scudetto a Cagliari o per la carriera da allenatore, ricca di soddisfazioni (ha allenato la nazionale femminile di calcio nel biennio ‘93/’94, ndr). Ma l’importante, in fondo, è essere ricordati: grazie agli autogol, la mia fama va al di là di quella di altri colleghi molto più bravi di me”. E sapete perché? “I miei gol fanno invidia agli attaccanti, tanto sono belli”.

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