A volte i paragoni possono essere arditi
Vintage – sportività
Libero indica il suo colpevole per la sconfitta dell’Italia contro la Spagna nella finale degli Europei
Saliou Lassissi – “A Roma mi sento come un barbone”
La palla stava rotolando tranquillamente verso la linea dell’out. Era un tocco semplice, da appoggiare indietro al portiere. Un tocco che, per uno che vestiva la maglia scudettata della Roma, era facile come buttare giù un bicchier d’acqua. È stato allora che il destino gli ha voltato rovinosamente le spalle. Sì perché mentre Saliou Lassissi provava a coprire la sfera, alle sue spalle l’attaccante del Boca Antonio Daniel Barijho andava in pressione nel tentativo di rubargli il pallone. Un contrasto troppo forte, una torsione della gamba di quelle che mettono i brividi, un dolore così forte da oscurare la vista. È stato allora, in quella serata del 7 agosto del 2001, che il futuro da nuovo Thuram di Saliou Lassissi ha imboccato un sentiero molto diverso.
La sua avventura italiana è iniziata nel 1998, quando il Parma decide di mettere mano al libretto degli assegni per assicurarsi l’estro e la forza fisica del centrale del Rennes. A Saliou, però, basta una sola partita per dimostrare che di estro, forse, ne ha fin troppo. L’occasione è un’amichevole precampionato del 30 luglio 1998 fra Inter e Parma, un match utile solo per il calcio d’agosto che il difensore affronta con tutta la carica che ha in corpo. “Mancando rotondità nel gioco, lucidità nella testa, agilità nei muscoli e ampiezza nel fiato, qualcuno s’è aggrappato alla vivacità dei nervi, già ben tesi – scriverà il giorno dopo La Repubblica – Tipo Lassissi, giovane stopper francese che avrebbe legittime aspirazioni alla Thuram (è elegante, rapido, forte) se soltanto fosse meno rissaiolo, soprattutto con Zamorano”. Ma non è certo finita qui. Un anno e mezzo dopo, infatti, il giovane difensore riesce a farsi notare a livello internazionale. Peccato, però, che il calcio c’entri davvero poco. “Lassisi ha scatenato addirittura un caso internazionale – scrive Repubblica il 16 gennaio 2000 – dopo aver colpito un compagno in allenamento, è stato escluso dalla nazionale della Costa d’Avorio per la Coppa d’Africa ed è stato internato in un campo militare. Solo dopo averlo interrogato sulla dinamica dei fatti, i soldati lo hanno liberato e i dirigenti del Parma l’hanno potuto contattare a casa sua”.
Una testa matta in un fisico d’acciaio. Tanto basta per convincere il presidente della RomaFranco Sensi a spendere i 20 miliardi che il Parma chiede per il suo cartellino. Dopo tutto, se c’è un allenatore in grado di mettere a freno l’esuberanza dell’ivoriano, quello è proprio Fabio Capello. E poco importa che il difensore si presenti in ritardo già al primo giorno di ritiro. La “bravata” si conclude con una strigliata da parte del mister e con un orologio nuovo di zecca regalato dai suoi nuovi compagni in modo da evitare scuse in futuro. Insomma, un sogno ad occhi aperti che si trasforma in incubo in quello che doveva essere il giorno più bello: quello della presentazione della Roma fresca campione d’Italia.
Un paio di mesi dopo l’infortunio, il Corriere della Sera decide di far visita al giocatore nella sua casa del Torrino. Lo spettacolo che si apre davanti agli occhi dell’inviato della storica testata, tuttavia, è molto diverso da quello che ci si poteva aspettare. Le stampelle appoggiate al muro, un cerottone a coprire il ginocchio sinistro, la televisione sempre sintonizzata su un canale francese. A vederlo così, Saliou sembra lontano anni luce dal leone che lottava sui campi della Serie A. “Continuo a sentire dolore, soffro molto, non vivo più – racconta Lassissi all’intervistatore -dormo sul divano, mi sveglio come un barbone, dormo mezz’ ora a notte. Non mi riconosco più, mi vedo male, anche la mia fidanzata mi chiede come è possibile che stia così. Non so che dire, sembra che nessuno, alla Roma, abbia mai avuto a che fare con un problema al nervo della gamba simile a quello che ho io”.
Poi è il suo procuratore, Antonio Caliendo, a entrare a gamba tesa su quelle che ritiene essere le colpe della società. “C’è stata una negligenza da parte del dottor Brozzi, il responsabile sanitario. Lassissi viene seguito da vari consulenti, ma ognuno dice una cosa diversa. Brozzi non ha mai telefonato a Lassissi per chiedergli come sta”. La Roma lo accusa di essere “fuggito” da villa Stuart dopo aver firmato, senza dire niente a nessuno, le carte per uscire dalla clinica. “Mi davano le pillole sbagliate. Così ho deciso di curarmi a casa – ha spiegato l’ivoriano – Non sono una testa matta. non ho mai avuto problemi con nessuno, nemmeno a Kapfenberg quando Capello mi rimproverava. Non so se alla Roma hanno pensato: Lassissi è questo, lasciamolo perdere. Ma se è andata così hanno sbagliato. Ho bisogno di essere aiutato e farei qualsiasi cosa per guarire”. Pur di guarire Saliou si dice pronto a tutto, anche a sottoporsi al quelle punture che lo spaventano così tanto. “Mi fanno molta paura ma le ho fatte, anche una dolorosissima alla gamba – ha spiegato – temo di non guarire più, nessuno fa niente per me, stanno giocando, ogni giorno si cambia. Mi dicano solo quello che devo fare e lo farò”. E ci sono problemi anche con la nuova terapia, iniziata qualche giorno prima con Gianluca Camiglieri, consulente medico della Roma. “Mi ha detto che non può venire perché la Roma non lo paga e lui deve andare a Firenze. Gli ho risposto che può venire anche alle 6 di mattina, tanto non dormo, e che lo pago io, se questo è il problema”.
La curiosità morbosa del Corriere sulle condizioni di Lassissi continua. Tanto che il giorno della Befana del 2003, il quotidiano intervista nuovamente il difensore. E le sue saranno parole piene di carbone nei confronti della sua società. Saliou, che ha ricevuto lo stipendio fino al giugno del 2002 (ma che dal mese successivo non ha visto un euro), risulta infatti inscritto nelle liste per il campionato e la Champions, ha firmato i premi vittoria, ma non viene mai preso in considerazione. “Non capisco più cosa succede intorno a me – ha confessato – Ora sto benissimo. Sto recuperando tecnica e velocità. Sui giornali si continua a leggere Lassissi indisponibile e questo mi fa molto male. Io sto bene, se non gioco è per scelta tecnica: come perCufré, Fuser o altri”. La colpa di però, non sarebbe dell’allenatore, Fabio Capello. “No, anzi. Lui voleva farmi giocare in Primavera contro l’Ascoli, ma la società ha bloccato tutto. Hanno detto che serviva un altro certificato medico, ma anche per il dottore era tutto a posto”. E allora, perché continua a essere ignorato? “Perché così approfittano per non pagarmi. Visto che non gioco, il presidente Sensi con me prende tempo. Potrebbe essere mio nonno, non voglio insultarlo ma nemmeno essere preso in giro. Una volta volevano darmi solo un mese su tre che mi dovevano. Gli ho risposto: o tutto o niente. Come pagano Batistuta devono pagare anche Lassissi”. Poi, dopo aver garantito con una certa umiltà di non essere “geloso” della corte che la Roma stava facendo a Legrottaglie (“Non me ne frega nulla. Sono più forte di chiunque possa arrivare”), ecco che il difensore svela il suo sogno. Un sogno che non è fatto né di Coppe Campioni da alzare, né di premi individuali da conquistare. “No, a me basterebbe l’amichevole di giovedì a Frosinone”.
Quando il contratto con la Roma arriva a scadenza, Lassissi prepara i bagagli e se ne va. Di lui, però, si ricorda ancora il Corriere della Sera che decide di andarlo a trovare fino a Parigi. Ma nonostante abbia cambiato Paese, la situazione di Saliou non è certo migliorata. “Qualche tempo fa, su un campetto di periferia alle porte di Parigi, qualcuno lo ha riconosciuto – scrive il Corriere . ‘Ehi, ma tu sei Lassissi!’, gli ha detto un ragazzo, uno di quelli che calpestano le categorie dilettantistiche. Lui ha negato: ‘No, non sono io. Anzi, non so nemmeno chi sia questo Lassissi’. Perché l’ho fatto? Perché voglio stare tranquillo. E se capivano chi ero, non mi avrebbero più lasciato in pace. Invece io devo pensare solo ad allenarmi”. Dopo i tre anni a Trigoria (“Scherzavo con Cassano, mi chiamava negro, mi faceva ridere”), ora il calcio comincia a mancargli sul serio. “È una cosa che mi fa diventare matto – dice- A volte prendo un pallone e mi metto a palleggiare, da solo. Tornerei in Italia anche gratis, ma andrei anche in Grecia, Turchia, Portogallo. Basta che ci sia qualcuno che crede ancora in me”. I suoi compagni della Costa d’Avorio lo aspettano ancora: “Ho parlato con Drogba, Touré, Kalou. Mi hanno detto: sei ancora il numero uno della difesa”.
Più o meno lo stesso concetto ribadito nel 2007 alla Gazzetta dello Sport, che lo ha seguito durante le sue corse a perdifiato lungo le vie della capitale francese. “Lassissi non è morto – assicura il difensore parlando di sé in terza persona – a 28 anni il calcio mi manca troppo”. Poi è tempo di tornare con la mente a quel maledetto infortunio. “Un dolore da impazzire, dicevano che era colpa mia, che non facevo le terapie. Ma chi è quel pazzo che si rifiuta di guarire? Ci ho messo un anno e mezzo a recuperare, qualcosa è andato storto durante l’intervento. Non mi hanno fatto giocare, mai. Baldini e Capello tentarono una volta, volevano provarmi nella Primavera. Sembrava fatta, poi arrivò Sensi e disse: “Questo non gioca”. Potevo andare al Bolton, ma anche in quel caso Sensi si oppose. La Roma mi ha rovinato e io, ancora oggi, mi chiedo il perché». La sua ultima vera partita si è datata ottobre 2003, un’amichevole della Costa d’Avorio contro il Nantes. Poi più nulla, se si eccettuano delle gare a fine 2005 con la Primavera del Nancy. “Mi fecero due anni di contratto, io accettai per andare al Mondiale. Ma non se ne fece più nulla: anche lì, completamente ignorato”. Ma nonostante l’inattività Saliou non ha certo perso l’autostima. “Sarei stato un buon difensore, magari avrei vinto il pallone d’oro africano. Andrei a giocare ovunque, i soldi non mi interessano, voglio solo giocare. Datemi una possibilità”.
E la tanto agognata chance per il difensore ivoriano arriva nell’agosto del 2007, quando il Bellinzona di Vladimier Petkovic, quarto nella serie B svizzera dopo tre giornate, decide di puntare su di lui. Lassissi firmerà un contratto di un anno a tremila euro al mese. Per lui, però, non è ancora il lieto fine. “Quello – dice – arriverà quando dimostrerò che posso tornare forte come prima, che magari trovo una squadra in Italia”.
Purtroppo il suo sogno è destinato a restare chiuso a doppia mandata in un cassetto. “Per qualche mese è transitato a Bellinzona pure il difensore Saliou Lassissi – scrive la Rosea il 19 marzo del 2008 – ‘non si è integrato’. Arrivò con un suv bianco e si presentò parlando in terza persona. Entrò in spogliatoio e disse al tecnico Petkovic: ‘Qui bisogna ascoltare Lassissi, Lassissi comanda la difesa’. La comandò in una partita e la squadra subì due gol per colpa sua”.
Christian La Grotteria – Storia di un “Citizen” mancato
La Grotteria, chi era costui? Uno di quei nomi che ti dicono qualcosa, a cui difficilmente, però, riesci ad associare un volto. Qualcuno lo ricorda come bomber (nemmeno troppo) di periferia nelle serie inferiori, per molti altri La Grotteria è, essenzialmente, il modo in cui Franco Sensi tentò di chiamare Nicola Legrottaglie.
Già. Estate del 2003: la Roma, dopo la più classica delle trattative-telenovela, si vede soffiare dalla Juventus di Moggi il biondino difensore del Chievo e futuro atleta di Cristo. I giallorossi, dopo aver fallito anche il colpo Lucio, ripiegheranno (si fa per dire) su Chivu. Proprio in occasione della conferenza stampa di presentazione dell’ex capitano dell’Ajax il presidente Sensi, in riferimento al mancato ingaggio di Legrottaglie, spiegherà: “È vero, La Grotteria ci interessava ma ce l’hanno fregato: pazienza, abbiamo puntato tutto su Chivu, così va il mercato”. Un lapsus più o meno legittimo, se non fosse che La Grotteria (che proprio Sensi, allora proprietario anche dei rosanero, portò a Palermo) dallo stesso presidente veniva regolarmente chiamato Legrotterie.
Eppure La Grotteria una sua dignità calcistica ce l’ha, è uno di quei giocatori “di categoria”. Argentino di La Plata quando passa dall’Ancona al Palermo è il giocatore più pagato nella storia rosanero e di tutta la Serie C. Il club marchigiano l’aveva acquistato nel ’98 dall’Estudiantes, in maglia biancorossa disputa due stagioni in C1 e, dopo aver centrato la promozione in B, si trasferisce in Sicilia per la cifra record di 3,5 miliardi di lire. Ma lui non sente il peso delle responsabilità e si presenta così: «Non sento addosso questa pressione. All’inizio mi è dispiaciuto lasciare la B, ma sono in un posto meraviglioso, con una passione simile all’ Argentina: ringrazio Dio. Si lavora tanto e mai ho faticato come quest’ anno. Pensare che in Argentina facevamo i ritiri allenandoci sulla spiaggia per poi andare tutti a fare il bagno in mare». Sente di essere a un punto di svolta, non si nasconde e racconta la sua storia: «La vita non è stata facile. A tre anni giocavo a pallone e credevo che sarebbe bastato il talento perché tutto proseguisse così. Poi a 17 anni mio padre Vito (di origini calabresi) ci ha abbandonato e siamo rimasti. Niente più calcio: bisognava lavorare. Finché un tecnico dell’ Estudiantes mi convinse che con un provino azzeccato avrei potuto coniugare stipendio e passione. Aveva ragione». In rosanero non segna tantissimo (17 reti in 3 stagioni tra C e B) ma lascia un grande ricordo tra i tifosi. La sua esperienza palermitana, però, gli consegna anche esperienze amare. Su Repubblica del 29 dicembre 2007 si parla delle indagini su un condannato per mafia, nell’articolo viene spiegato come il personaggio in questione fosse una sorta di delegato di Cosa Nostra per lo sport: “Secondo gli investigatori si accreditava presso dirigenti e calciatori come una sorta di “protettore”, soprattutto quando molti di loro subivano danneggiamenti, aggressioni o rapine. Non sono state infatti poche le intimidazioni nei confronti di dirigenti e calciatori. La Grotteria fu vittima di più incidenti: gli bruciarono l’ automobile, subì una rapina con aggressione ed un furto nella sua casa palermitana”.
Dopo Palermo, la prossima fermata della carriera di La Grotteria è Padova (dal 2003 al 2007), in C1. Eppure in Sicilia non l’hanno ancora scordato, tanto che nel ritiro precampionato del 2007 torna, suo malgrado, protagonista. Corini lascia i rosanero e tra i tifosi desta scalpore la scelta del neo acquisto Matteini di prendere la maglia numero 5 dell’ex capitano, ma lui spiazza tutti spiegando come Corini non c’entri nulla. C’entra Christian La Grotteria. «Un giocatore che ho sempre ammirato. Mi piaceva il suo modo di giocare e mi piaceva che da attaccante avesse scelto il numero 5. Un esempio da seguire. Un giocatore che in Italia avrebbe potuto fare molto di più per le sue doti e le sue caratteristiche». Tra l’altro La Grotteria, a sua volta, spiegò come la scelta del numero 5 fosse dovuto all’ammirazione per Falcao. Motivazione al quanto bizzarra per un argentino.
Nel 2007, chiusa l’esperienza padovana, tenta la scalata dalla C1 alla Premier League. Dalla Gazzetta dello Sport del 19 giugno 2007: “L’argentino Christian La Grotteria e il Padova si separano. L’attaccante lascia il club veneto dopo una stagione rovinata da un infortunio. Per lui però si apre una possibilità molto interessante: nei prossimi giorni infatti sarà in Inghilterra per trascorrere un periodo di allenamento con il Manchester City”. Il provino non andrà bene e i fratelli Gallagher non lo vedranno mai segnare a Maine Road. Si dovrà accontentare della Spal, in C2. Ci resta per due stagioni prima di chiudere la carriera, nel 2011, al Bassano Virtus, Seconda Divisione di Lega Pro. Ora è allenatore in seconda e direttore dell’area tecnica a Bassano, nel 2008 ha fondato una scuola calcio col suo nome a Lampedusa. A Padova, nel 2007, ha inaugurato il suo bar, il “Kolar” presentandolo così: “Abbiamo cercato di fare una cosa diversa, un bar introducendo anche l’arte. Ci sono quadri e sculture, una cosa diversa, per avvicinare la gente anche all’arte”. Cose intendesse non è ancora chiaro.
Carsten Jancker – Il fallimento del “modello” Udinese
Non solo Sanchez, Handanovic, Asamoah e Pizarro. Il tanto decantato “modello Udinese” ha portato in Italia anche calciatori di cui la Serie A avrebbe fatto tranquillamente a meno. Uno su tutti: Carsten Jancker. Quel centravanti tedesco – pelato, alto e grosso – che non aveva il vizio del gol.
Il club di Pozzo lo acquista nell’estate del 2002 dal Bayern Monaco, e forse è proprio la prestigiosa provenienza che illude i tifosi friulani che, si fa per dire, hanno potuto apprezzare il Panzer tedesco anche nei mondiali di Corea e Giappone. Fatto sta che al momento dell’atterraggio in Italia Jancker è un nome più o meno conosciuto anche se nessuno può dire di averlo mai seguito con attenzione e insistenza. Quindi per lui parla il palmares: 1 campionato austriaco con il Rapid Vienna, mentre con il Bayern vince 4 edizioni della Bundesliga, 2 coppe di Germania, 4 coppe di lega, 1 Champions League nel 2000-2001 e la Coppa Intercontinentale nel 2001. Eppure la sua soddisfazione più grande rischia di materializzarsi proprio nella serata più amara della sua carriera, e forse dell’intera storia del Bayern Monaco. Il 26 maggio 1999, al Camp Nou di Barcellona, si gioca la finale di Champions League tra i tedeschi e il Manchester United. I bavaresi vanno in vantaggio nel primo tempo grazie a una punizione procurata da Jancker e trasformata in gol da Mario Basler. Nel secondo tempo i Red Devils cercano la rete del pari ma il Bayern va vicinissimo al raddoppio in più di un’occasione, una di queste vede protagonista proprio il pelatissimo Carsten: mancano infatti una manciata di minuti al termine quando Jancker si trova, spalle alla porta, solo e a pochi passi dalla rete. In una frazione di secondo decide che è arrivato il suo momento di gloria, vuole far calare il sipario sulla partita più importante dell’anno con un gesto tecnico e atletico che non gli appartiene: il gol in rovesciata. La sua esecuzione non è delle più aggraziate, si accascia pesantemente al suolo mentre uncina con il piede destro il pallone che, tuttavia, sembra aver superato Schmeichel ed essere destino a baciare la rete. Invece sarà la traversa a ridestare Jancker dai sogni di gloria e ricacciare la sfera in gioco. Di lì a poco il Bayern cadrà sotto i colpi di Sheringham (primo minuto di recupero) e Solskjaer (terzo e ultimo minuto di recupero) che porteranno la coppa con le grandi orecchie a Manchester.
La Champions riuscirà a vincerla nella finale di Milano del 2001, contro il Valencia, ai rigori (lui entrerà nel secondo tempo ma ovviamente non verrà mandato sul dischetto). Ma la sua ultima stagione in Baviera (2001/2002) ha quasi dell’incredibile: non segna nemmeno un gol, eppure Rudi Voeller lo convoca ugualmente per il Mondiale nippo-coreano che vedrà la Germania sconfitta solo in finale dal Brasile (2-0 con doppietta di Ronaldo). Ma il fato vuole che Jancker segni uno degli 8 gol all’Arabia Saudita nell’esordio tedesco. E quello che sembra un segno del destino resterà un banalissimo episodio isolato. Ma è quanto basta per convincere L’Udinese ad offrirgli un ingaggio. Il 24 luglio la Gazzetta dello Sport, nelle pagine di mercato, titola: “Meglio Jancker di Bierhoff l’Udinese aggiusta l’attacco”. Nell’articolo si legge: “L’ Udinese ha scelto. Il suo nuovo centravanti è Carsten Jancker, 28 anni il prossimo 28 agosto, che i Pozzo hanno preferito all’ex Oliver Bierhoff, un po’ perché non amano i cavalli di e perché l’ex Bayern, in virtù dei sei anni in meno, offre maggiori garanzie fisiche e tecniche”. Vengono svelati anche alcuni retroscena che fanno capire quanto la scelta fosse convinta: “ieri mattina il direttore generale dell’Udinese Pier Paolo Marino, accompagnato dal presidente Franco Soldati, è volato a Monaco con l’aereo personale di Gian Paolo Pozzo. «Mi porti Jancker»,l’ordine perentorio dell’azionista di maggioranza”. A missione compiuta Marino dichiarerà: «Sono felice perché abbiamo centrato quello che, sin dall’ inizio, era il nostro obiettivo di mercato». L’allenatore di quell’Udinese, Luciano Spalletti, dirà: «Abbiamo preso un giocatore che ha le stesse caratteristiche degli ultimi attaccanti dell’ Udinese. Sono convinto che il ragazzo abbia ancora grandi stimoli e possa fare bene». A queste premesse si aggiungono anche le parole di Karl-Heinz Rummenigge, secondo cui «Jancker è meglio di Bierhoff perché sa usare anche i piedi». Eppure con l’avvicinarsi dell’inizio del campionato qualche dubbio si fa largo. Il 7 settembre la Gazzetta titola: “Sarà un panzer tedesco a risolvere i problemi?”. Lui accetta la sfida e rilancia: «Avevo la possibilità di andare a giocare anche altrove, ma ho scelto l’Italia perché la consideravo la soluzione migliore da punto di vista professionale».
Eppure la prima stagione non dà ragione a nessuno, il suo impatto sulla Serie A è praticamente insignficante: 19 presenze e un solo gol. Non va meglio l’anno dopo: 16 presenze e un gol che sarà decisivo per l’1-0 sulla Reggina. Eppure, nonostante l’importanza della rete, l’inviato della Gazzetta dello scrive: “Gol di Carsten Jancker, colosso tedesco, detto il Boscaiolo per la mole e per i colpi d’accetta con cui è solito colpire la palla”. Di lui non ne possono più né Spalletti né Pozzo che sbotta: «Ho avuto tanta pazienza col tedesco, adesso basta: ci sta prendendo in giro, evidentemente è venuto in Italia a fare il turista». Jancker prova a rispondere: «Con la Sampdoria ho giocato male, ma come tutta la squadra, e comunque le considerazioni di Pozzo non mi interessano». Ma a inizio 2004 chiederà e otterrà, ovviamente, la rescissione del contratto e vola in patria, al Kaiserslautern. Lì, in una stagione e mezzo, segnerà solo 4 reti.
Nel 2006/’07 va in Cina, allo Shanghai Shenhua (attuale squadra di Drogba e Anelka) e gioca 7 partite senza mai segnare. Alla fine chiude la carriera in Austria al Mattersburg. Attualmente allena la squadra under 15 del Rapid Vienna. Più volte, ma senza riscontri oggettivi, è stato accusato di avere simpatie neonaziste. La polizia postale tedesca ha rintracciato e chiuso alcuni siti internet di naziskin che inneggiavano proprio a Carsten Jancker. Non per le sue doti tecniche, piuttosto per la sua imponente figura tipicamente ariana.
Salvatore Soviero – “Essere corretti non paga. Tanto vale piantare un gran casino”
Fisico imponente, sguardo da duro e un’innata predisposizione a cacciarsi nei guai. A suo modo, Salvatore Soviero, è un fuoriclasse. Nessuno riesce a farsi odiare e, allo stesso tempo, farsi voler bene come sa fare lui. Croce e delizia un po’ per tutti. Preziosa saracinesca per tifosi e compagni di squadra nelle giornate di grazia, manna dal cielo e insieme giustiziere per gli avversari nelle domeniche di black out. Soviero ha sbagliato tante volte in carriera e i suoi errori li ha sempre pagati sino in fondo. Su una cosa, però, ha sempre avuto ragione: «Non sarò mai Zoff». Del Dino nazionale, tralasciando le doti tecniche, non avrà mai il freddo distacco emotivo né, tantomeno, l’eloquio flemmatico.
Salvatore fa parlare per la prima volta di sé, nei modi che tutti gli riconoscono, il 13 dicembre 1999, in una partita di Serie B. Allo stadio Rigamonti si gioca Brescia-Genoa, Soviero difende la porta dei grifoni in una partita tiratissima. La tensione cresce con il passare dei minuti, per i rossoblu è importante vincere e ogni pallone può essere quello decisivo. Così capita che il guardalinee conceda un calcio d’angolo in favore dei lombardi che, a detta del focoso portiere genoano, non esiste. Scene viste e riviste sui campi di tutto il mondo, qualche protesta in faccia all’arbitro, magari un “vaffa” appena sussurrato e poi si torna a giocare. Macché, stavolta non è così. Sasa’ non riesce a farsene una ragione, è convinto di aver subito un’ingiustizia che potrebbe costar cara alla sua squadra, la rabbia monta piano piano fino ad esplodere. Si lascia andare a dissertazioni decisamente poco ammirevoli circa la mamma del malcapitato assistente, “colpevole” di aver alzato la bandierina nella direzione sbagliata. Le telecamere non si lasciano sfuggire lo sfogo del numero 1 e i microfoni, posizionati subito dietro la porta, non si perdono neanche una parola. I telecronisti, a metà tra lo sconcerto e il divertito, restano in silenzio e così va in diretta il Soviero show con un incipit che è tutto un programma: «Chella latrina ‘e mammeta». Ma è solo l’inizio di 40 secondi di insulti ininterrotti che hanno come bersaglio lo spaventatissimo guardalinee che, nel frattempo, comincia a sudare freddo e guardare fisso qualsiasi cosa non fosse quell’armadio a quattro ante che gli inveiva contro, con tono sempre più aggressivo. Quel Brescia-Genoa finirà 1-0 per gli ospiti e non passerà certo alla storia del calcio, ma la sua invettiva diventerà un vero e proprio cult per gli appassionati che, da quel giorno, impareranno a conoscere quel portiere grosso e irascibile che ogni tanto perde il lume e se la prende con chiunque gli capiti intorno. Tanto che oggi, a più di 10 anni di distanza, quei 40 secondi di ordinaria follia sono ancora cliccatissimi su You Tube con commenti costantemente aggiornati.
Eppure quella non era la prima performance tutta particolare del “portierone” di Nola. Già nel campionato d Serie C1 1996-’97 aveva lasciato intravedere alcune delle sue doti più note. Certo, un inizio soft, nulla a che vedere con quello che combinerà nel corso della sua carriera. Un sottile filo rosso però lega questo episodio alla notte bresciana, ancora una volta a scatenare l’ira funesta di Soviero sarà una bandierina. Si gioca Fermana-Giulianova, Soviero difende la porta dei padroni di casa ma una decisione del guardalinee lo manda su tutte le furie. Tutta la squadra circonda l’assistente e l’arbitro espelle il portiere gialloblu. Lui però, ovviamente, non si calma e continua assieme a tutta la squadra a protestare. Tutti conoscono benissimo il carattere di Sasa’, quando vede il cartellino rosso va su tutte le furie. Allora dalla panchina, un dirigente in giacca e cravatta, corre e raggiunge Soviero abbracciandolo forte da dietro per portarlo via ed evitare la maxi squalifica. Ma una scena del genere ha bisogno di un finale a effetto, per il numero 1 sarebbe troppo banale lasciare il campo scortato da un signore di mezza età che lo riporta a più miti consigli. Detto fatto. Con una mossa da judoka ribalta in una frazione di secondo il dirigente che tentava di placcarlo, lo lascia in terra e senza neanche guardarlo guadagna la via degli spogliatoi mentre si toglie nervosamente la maglia. Niente male, ma il meglio (o il peggio, dipende dai punti di vista) deve ancora arrivare.
La sua perla, la rissa che gli permetterà di registrare il picco di contatti su You Tube e ben cinque mesi di squalifica arriverà qualche anno dopo. Il 17 aprile 2004 tutta Italia si accorge di Salvatore Soviero. Stavolta la combina davvero grossa, la più grossa. Sul neutro del “San Nicola” si gioca Messina-Venezia, Sasa’ ha sulle spalle il numero 90 e comanda la difesa veneta. Già nel primo tempo gli ospiti rimangono in 10, poi, nel secondo tempo, viene concesso un rigore ai siciliani che scatena le proteste degli avversari. Maldonado viene espulso per proteste violente malgrado i tentativi di mettere pace di, udite udite, Soviero. Parisi trasforma, il Messina si porta sul 2-1, a pochi minuti dalla fine il Venezia è rimasto in 9. Sasa’ però ci crede ancora e invita, alla sua maniera, l’arbitro a far riprendere il gioco con maggiore solerzia. La giacchetta nera, però, giudica le sue rimostranze eccessive e gli sventola in faccia il cartellino rosso. Sasa’ si imbestialisce, ma questa volta non ce l’ha con la terra arbitrale, punta dritto la panchina siciliana e scatena tutta la sua rabbia. Il suo obbiettivo è il tecnico messinese Mutti. In cinque minuti si trascina cinque uomini, sferrando calci e pugni. Non servono a nulla i tentativi di fermarlo, continua a picchiare tutto quello che si trova davanti, si getta addosso a Zaniolo,rifila un calcione volante a Lavecchia e anche un addetto alla sicurezza dello stadio rimedia un bel gancio destro dai guantoni del furioso Sasa’. Intanto l’arbitro fischia per tre volte, sperando che Soviero possa sentire la campanella e tornare all’angolo. Morale della favola, l’ha dovuto trascinare nel sottopassaggio il suo d.g.Michele Dal Cin e un poliziotto l’ ha pure ammanettato, prima di finire in uno stanzino.
I motivi del raptus li spiegherà qualche giorno dopo lo stesso Soviero: «Focoso, sono focoso, non ci posso fare nulla, ho sbagliato, ma sono focoso. Non accetto di perdere così, non accetto le sconfitte ingiuste, i soprusi. Mi sono sentito danneggiato e ho reagito in questo modo, ma sono stato provocato da quelli del Messina, mi hanno detto “torna in porta imbecille”, poi hanno continuato a dire “Hai finito di fare il fenomeno? Tanto ormai l’hai presa in quel posto ed è giusto che retrocedi in C1″. Certo, ho perso la testa a 30 anni, non è bello». Proprio per questo non si è mai preso tutte le colpe di quella assurda rissa da far west: «Mi sono diretto verso Mutti, ma ce l’ avevo con tutti. Ho esagerato, l’hanno visto tutti. Mi dispiace ma chi sotto questo cielo non fa errori? Non mi voglio discolpare del tutto, perché, a detta di tutti i miei compagni, Palanca è stato ingiusto con noi. Il casino l’ha creato lui». All’indomani del fattaccio già si preoccupava delle sanzioni: «Mi daranno sei mesi di squalifica? Che ne so io? Tanto vale allora doparsi in questo calcio, visto che dopo tre mesi sei di nuovo in campo. Spero che con me non calchino la mano». Speranze vane, il giudice sportivo gli darà cinque mesi.
A questo punto, dopo una vita passata tra i campi ci B e C e con una stangata del genere, la carriera di Soviero sembra giunta al capolinea. Invece in estate lo chiamerà la Reggina di Walter Mazzarri per offrirgli la grande occasione di giocare finalmente in Serie A. Sasa’ finisce di scontare la squalifica ma quando torna a disposizione è chiuso da Pavarini. Il grande dio del calcio però si ricorda di essere in debito con quel portiere boxeur e gli concede la grande opportunità. Proprio a Messina si infortuna Pavarini e Mazzarri decide di puntare su Soviero per la domenica successiva. Sasa’ farà il suo esordio in Serie A, sotto la curva sud del “Granillo”, contro la Juventus capolista e con lo scudetto sul petto. Sa benissimo che è l’occasione della vita e non fa nulla per nasconderlo il giorno prima della partita: «Inizio una nuova vita. Tu guarda il destino, il Messina rischiava di chiudere la mia carriera e una settimana fa l’ha fatta ricominciare. Non farò male a una mosca, ma immaginatevi come sto, ho una voglia incredibile di dimostrare il mio valore. È triste passare per l’unico male del calcio italiano». Un vero guerriero, Salvatore: «Dovranno vedersela con me, mica il signor Soviero è mai partito sconfitto in vita sua. Vuoi mettere Soviero che torna e batte la Juve, mi immagino già i titoli dei giornali». Questa volta avrà ragione lui, tornerà e batterà la Juve, 2-1. I titoli dei giornali e i cori dei tifosi per una volta lo esalteranno e lo porteranno in trionfo. Tutti per lo stesso motivo. Ma in una serata del genere, Sasa’ non può non metterci lo zampino, le parate non gli bastano per essere ricordato. Allora dopo essersi beccato un giallo per perdita di tempo e qualche rimbrotto da Dal Piero, come se sapesse che la regia televisiva avesse appena stretto su di lui un primissimo piano, porta dolcemente il suo indice all’orecchio e sventola il suo lobo sinistro guardando fisso il numero 10 bianconero. Il gesto è eloquente e non sembra aver bisogno di ulteriori spiegazioni, lui però è uno scrupoloso e allora arriva il suo labiale a dissipare qualsiasi dubbio possibile: «Ricchione». La pagella del Corriere della Sera fotografa alla perfezione la sua prova: «Soviero irascibile ma impeccabile – Voto 6,5: La serie A conosciuta ad anni 31. Qualche uscita a vuoto, qualche buona parata a terra, una strepitosa respinta su Emerson. È pure fortunato: quando Zalayeta lo supera la palla sbatte sul palo. Un buon esordio macchiato nel finale dal brutto carattere».
Quella alla Reggina resterà la sua unica stagione in A, ma il portiere di Nola con il vizio di uscire a pugni chiusi troppo fuori dall’area di rigore ci regalerà ancora una chicca. L’ultima risale al marzo 2009, si gioca a Potenzae Soviero è il portiere della Juve Stabia. Lui, idolo dei suoi tifosi, è spesso oggetto di provocazioni da parte degli ultras di mezza Italia. Tanto che cominciano a piovergli addosso palle di neve, che provocano la sua reazione. A questo punto il patron del Potenza si avvicina a Soviero e gli dice di non lamentarsi. Sasa’ non riesce a starsene buono e reagisce tanto che nel parapiglia il presidente finisce a terra e la partita viene sospesa per cinque minuti. Lui però non si è mai pentito di niente, anzi va orgoglioso di tutto quello che ha fatto: «Scommetteteci, rifarei tutto. Dal Messina, dove fui provocato, a Del Piero; dal guardalinee che non ne indovinava una al dirigente della Fermana. Andate su You Tube e vedrete tutte le mie bravate. Essere corretti non paga, tanto vale piantare un gran casino, almeno ti sei tolto lo sfizio. Sono un personaggio che, quando denuncia, viene trattato da delinquente. Mi sono arrivati da Potenza messaggi chiari sul cellulare. Frasi tipo “…mangiati le polpette e prendi gol… il versamento è stato fatto, non ci deludere…”. Ho subito chiamato la società e l’Ufficio indagini. Le palle di neve fanno male, ma non interessa a nessuno, fa comodo dire che sono il solito piantagrane, più tempo passa e più mi convinco che fare la persona per bene serve a poco. Rifarei tutto».
Federico Magallanes – Storia di un Galactico per caso
Ha esordito e vinto, appena maggiorenne, con il Penarol. Con la “Celeste” dell’Uruguay ha giocato un mondiale (Giappone-Corea 2002) e segnato al Brasile il gol partita in un match di qualificazione. È stato scelto dai “galacticos” del Real Madrid. Eppure, quelle che potrebbero sembrare le tappe fondamentali della carriera di un predestinato, nascondono un’altra verità. Perché il personaggio in questione è Federico Magallanes. Proprio lui, quel capellone che in Italia giocò con Atalanta, Venezia e Torino. L’uruguaiano dal ruolo indefinito (esterno/ala/seconda punta/centravanti) che non sfiorò mai la doppia cifra nella classifica marcatori ma che, in compenso, centrò una doppia retrocessione consecutiva, in veneto prima e in maglia granata poi.
Eppure i suoi primi passi, in Uruguay, avevano attirato l’attenzione di molti. Quando fa il suo esordio con il Penarol di Montevideo non ha ancora 18 anni. Si ritaglia parecchi spazi in prima squadra, dal ’94 al ’96 scende in campo per 34 volte e segna 10 reti, contribuendo anche alla vittoria di un titolo di apertura. È così che l’Atalanta si accorge di lui e per 3,5 miliardi di lire lo porta alla corte di Mondonico. Nella stessa sessione di mercato (estate 1996) i bergamaschi prendono, in comproprietà dal Parma, anche un certo Filippo Inzaghi. Bastano pochi giorni di ritiro e SuperPippo scavalca nelle gerarchie il “talento” sudamericano. Il “Mondo”, come tutti gli altri allenatori che lo hanno avuto, fa fatica a comprendere dove Magallanes possa rendere al meglio. Così inizia il campionato e l’Atalanta vola con il trio Morfeo-Inzaghi-Lentini, tanto che sarà proprio il centravanti italiano a vincere la classifica dei marcatori. A Federico restano le briciole: appena 11 presenze e un solo gol, al 90’ segna l’1-0 contro il Verona. Una rete che, con un pizzico di esagerazione, lo porterà a dire: “Ho dimostrato di essere il più forte”.
L’anno successivo Inzaghi va alla Juventus ma per lui la storia non cambia, 2 gol in 13 presenze. L’avventura italiana sembra già essere al capolinea e la sua carriera al punto più basso, eppure arriva la chiamata che non t’aspetti: lo cerca il Real Madrid. Incredibile, il club dei galattici bussa alla porta dell’Atalanta per un’attaccante da 1,5 gol all’anno. La società bergamasca, ovviamente, non oppone resistenza e Magallanes, assieme al suo procuratore Paco Casal (lui sì, vero fuoriclasse), firma il contratto che sognava fin da bambino. Sulla panchina dei blancos siede Guus Hiddink, gli bastano pochi allenamenti per capire che forse sarebbe meglio puntare su gente come Raul, Mijatovic, Suker e Morientes. Neanche il tempo di iniziare che Federico si ritrova al Racing Santander, dove farà quasi peggio che in Italia (17 presenze e un gol). In patria, però, ha ancora qualche estimatore e viene convocato per la Copa America 1999. L’Uruguay arriva fino alla Finale in cui perderà 3-0 col Brasile. Magallanes, però, è decisivo sia nei quarti che nella semifinale: la Celeste arriva in entrambe le occasioni ai rigori ed è sempre lui a calciare il tiro decisivo della serie.
Finalmente trova nuovi stimoli e comprende, a 24 anni, di essere a un punto decisivo della sua carriera, così decide di tornare in patria, al Defensor Sporting. Si carica la squadra sulle spalle e con i suoi gol (21 in 32 presenze) la porta stabilmente tra i primi 3 posti della classifica. L’eco delle sue gesta arriva sino in Italia, lui ha una voglia matta di far ricredere il calcio tricolore e ci ricasca (assieme ai dirigenti italiani). Il Venezia diZamparini per guadagnarsi la salvezza punta su di lui. È carico: «Sono ritornato in Italia per prendermi la rivincita». Sarà la sua stagione più prolifica in Serie A, tuttavia i suoi 5 gol non serviranno a salvare i lagunari. L’anno dopo è al Torino e viene presentato con toni tanto entusiastici quanto privi di ogni fondamento.Attilio Romero, presidente del Toro, dice di lui: «E’ un devastatore di fascia sinistra, un cocktail fra Best, Meroni e Gento». Federico rincara la dose e risponde stizzito a chi evidenzia la confusione riguardo la sua posizione in campo: «Dove giocherò? Deciderà Camolese ma io posso giocare ovunque, perché i grandi giocatori possono giocare ovunque. Questo sarà l’anno della mia consacrazione». E poi: «I derby sono bellissimi e ora tocca al Toro vincere. Ho già segnato un gol a Buffon. Spero di fargliene altri». Ancora una volta le eccessive aspettative e il suo scarso spirito di autocritica finiranno per seppellirlo: non segnerà nessun gol a Buffon, il Toro non vincerà il derby e finirà in Serie B.
Trova di nuovo un ingaggio, in Spagna, al Siviglia: un anno di contratto più opzione per il secondo, rigorosamente non esercitata dopo 5 presenze e il solito, unico, e malinconico gol. Persino l’Albacete B (che milita in terza divisione spagnola) lo scarta. Nel 2004-2005 è tesserato per l’Eibar, seconda divisione spagnola. L’anno dopo per il Dijon, terza serie francese. A quel punto decide di ritirarsi ma, in realtà, i motivi che lo portano ad appendere le scarpe al chiodo hanno poco a che vedere con i crudeli verdetti del campo. C’è chi sostiene che Federico non ne possa più del suo procuratore Paco Casal e del sistema che gli ruota attorno. La rottura definitiva arriva nel 2005, quando sta per acquistare un terreno in Spagna. Proprio mentre sta ritirando in banca la somma di cui ha bisogno lo avvisano che ci sono problemi. Dopo qualche giorno, e una telefonata furiosa con il suo agente, la situazione si sblocca ma Magallanes è nauseato dalla situazione e torna in Uruguay senza nessun ingaggio. Sta un anno fermo e poi ci ricasca: ancora Spagna, in Segunda Division al Merida, suo ultimo domicilio conosciuto. Al termine della stagione a Federico verrà riconsegnato il cartellino, per l’ottava volta viene svincolato e inserito in lista gratuita. Lui, che per qualche giorno era stato “galactico”.
Gigi Maifredi – “La zona è quella cosa che prima tremi e dopo vinci”
Impossibile trovare una via di mezzo. O santo o eretico, o innovatore o cialtrone, o condottiero o reietto. Sì perché Gigi Maifredi è uno di quei personaggi che i tifosi di una squadra di calcio o hanno amato alla follia o hanno detestato con buona parte delle proprie forze. E a far pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra non sono stati solo i risultati, la sua granitica fede per la zona e la volontà di imporre sempre il proprio gioco agli avversari. No, a trasformare il suo cammino in una lunga salita ci ha pensato soprattutto il suo eccesso di autostima.
La sua carriera da allenatore inizia nel 1976, quando si siede sulla panchina del Real Brescia. Il purgatorio, però, dura poco. Dopo soli due anni, infatti, ecco la chiamata del Crotone in Serie C. Peccato che quello che doveva essere il suo trampolino di lancio si trasforma ben presto in un lungo peregrinare fra dilettanti e semiprofessionisti. Almeno fino a quando Corioni, bresciano come lui, non lo chiama a Bologna. Ed è qui che Gigi compie il primo (e forse ultimo) grande miracolo della sua carriera centrando la promozione dalla B alla A al primo tentativo. Gli anni in rossoblù (dal 1987 al 1990) esaltano la critica che ribattezza il suo gioco “Calcio Champagne”. Un complimento di cui andar fieri se non fosse per quell’insolente riferimento alla sua professione, il rappresentante di Clicquot, grazie alla quale Maifredi aveva tirato avanti durante gli anni della gavetta. Durante l’esperienza bolognese il mister di Lograto attira su di sé l’interesse dei club più importanti dello Stivale. Ad accaparrarselo, alla fine, è la Juventus che dopo il quarto posto ottenuto l’anno prima da Dino Zoff (condito però da una Coppa Italia e una Coppa Uefa) vuole aprire un nuovo ciclo improntato sul calcio d’attacco. Quello di Maifredi, appunto. Gigi coglie la palla al balzo e, dopo aver fatto montare nel centro sportivo della Juve una gabbia 40×20 dove provare gli schemi, decide di non nascondersi dietro un dito. “Prima vendevo panettoni, adesso vendo idee – dice presentandosi ai tifosi bianconeri – non ho mai visionato una squadra avversaria, sono gli altri a doversi preoccupare di noi. La zona è quella cosa che prima tremi e dopo vinci”. E a chi gli chiede qual è il segreto per vincere, Gigi risponde: “Il giovedì dico: fortuna, dammi la formazione-tipo che al resto penso io. Sono un allenatore di calcio. Bravo”. Purtroppo per lui, tuttavia, autostima e risultati non vanno a braccetto. La gabbia 40×20 rimane pressoché inutilizzata, mentre la Juve conclude il campionato al settimo posto. Una classifica a dir poco anemica che, per la prima volta dopo 28 anni, lascerà i bianconeri fuori dalle coppe europee. L’esonero è nell’aria, ma Maifredi non ci sta e dà la sua spiegazione: sono stato allontanato “perché mi ero rifiutato di firmare il triennale che mi aveva propostol’avvocato Agnelli. Ma il personaggio è così, io sono così. E ho ancora tanta voglia di insegnare pedate”.
Sarà, ma da quel momento non riuscirà più a sedere su una panchina fino alla fine della stagione. Per lui ci saranno solo esoneri o dimissioni. Un copione sempre uguale a se stesso che si ripete con Bologna, Genoa, Brescia, Pescara, Venezia, Esperance Tunisi, Albacete (B spagnola), Reggiana. Ma più gli insuccessi si moltiplicano, più Gigi si autoconvince delle proprie idee. “Mi hanno denigrato, mi hanno distrutto senza conoscermi ma adesso lavorerei anche gratis – si lamenta – chi nasce allenatore allenatore muore, non sono cambiato ma sono migliorato (…) la zona è propositiva e il resto è distruttivo. Senza quelli come me, Sacchi e Zeman, oggi continueremmo a difendere l’uno a zero” E ancora; “Quattro promozioni in sei anni, il Bologna e la Juve, un segno l’avrò pure lasciato”.
Perché qualcuno si ricordi di quel segno, però, bisogna aspettare il dicembre del 2004 quando Lotito, a pochi giorni dalla stracittadina, pensa seriamente all’ex allenatore della Juve per sostituire Mimmo Caso. I giornali fiutano l’affare e danno l’accordo ormai per scontato. Lo stesso Maifredi, smanioso di ritornare ad allenare, si trattiene a stento e parla già da allenatore biancoceleste. “Io credo nel dialogo, e so farmi ascoltare: magari perché ho questo vocione potente – dice – la Lazio è una grande squadra demotivata, qui bisogna rivitalizzare. Nel derby non si parte battuti. Disoccupato? Sì, ma in questi anni ho visto milioni di videocassette e centinaia di partite. Ho letto un’intervista a De Niro che non ha girato film per tre anni. Dice che quand’è tornato sul set non si è mai sentito tanto carico”.
Ad aspettarlo a braccia aperte (dopo una parentesi che lo aveva portato a brevettare lucchetti), tuttavia, c’è solo il set di “Quelli che il calcio”, dove si siederà sulla panchina del Maifredi Team. Niente sfide che mettono a dura prova le coronarie o partite dove ci si gioca la vetta del campionato, solo gare di beneficenza e quel giochino crudele di replicare i gol segnati da altri. Eppure Luigi non riesce a darsi pace, continua a ripercorrere i momenti chiave della sua carriera, racconta addirittura che Dino Viola tentò di strapparlo alla Juve di Boniperti proponendogli un quinquennale: “Non vada a Torino, non è il suo ambiente, non si troverà bene, mi disse il presidente. Forse aveva ragione. Non posso essere diventato scarso di colpo, se io fossi un presidente il signor Maifredi lo andrei ancora a cercare, ma senza accontentarmi dei giudizi degli altri”. Col tempo si rassegnerà al ruolo di opinionista e, proprio in questa veste, ci regalerà forse la sua migliore performance.
Giulio Nuciari – Quando battere i record diventa imbarazzante
Se finire a difendere la porta di una squadra di calcio è il risultato di una vocazione, essere relegato in panchina porta con sé un’intima condanna. Ossia la consapevolezza che a decidere il proprio ingresso non saranno tanto i meriti personali, quanto gli infortuni altrui. Nessun turnover, nessun cambio in corsa, nessun allenatore che ti fa scaldare nella speranza che tu possa cambiare la partita. Così, se chi sulle spalle porta il numero 1 è bravo sul serio, il rischio per il proprietario della zavorra numero 12 è quello di invecchiare a bagnomaria a poco meno di 10 metri dal rettangolo di gioco. E Giulio Nuciari ne sa qualcosa. Sì perché in 17 anni di carriera il portiere veneto ha stabilito un record tanto commovente quanto feroce. Per 333 volte, infatti, Nuciari si è dovuto accontentare di osservare dalla panchina i suoi compagni intenti a scrivere qualche pagina della storia della Serie A. Poco male, visto che nelle uniche 17 volte che è stato tirato in ballo Giulio ha fatto mettere le mani nei capelli ai propri tifosi, ha stampato un sorriso sulla bocca degli ultras avversari e ha riempito da solo intere puntate degli show della Gialappa’s.
E dire che il suo ballo delle debuttanti nella massima serie aveva lasciato sperare in cammino sotto la luce dei riflettori. È l’11 settembre del 1983 quando Nuciari scende in campo ad Avellino per difendere i legni del Milan. Esattamente lo stesso giorno in cui Walter Zenga, a Milano, vestiva per la prima volta la maglia dell’Inter. Quel giorno, però, non andò di lusso a nessuno dei due. La Sampdoria di Francis buca due volte la porta nerazzurra, mentre in Irpinia i rossoneri vengono travolti dai padroni di casa con un rumoroso 4-0. Nuciari non commette errori ma la sua stella, per qualcuno, è già spenta. “Io e Zenga abbiamo cominciato lo stesso giorno – ha raccontato Nuciari qualche anno dopo – eppure le critiche furono tutte per me. Un vero massacro. Sullo slancio di una scelta già fatta mi confermarono per altre 4 gare ma non riuscii a liberarmi di quel peccato originale. Castagner a un certo punto mi sostituì col bravissimo Piotti. Mi disse che lo faceva “perché non mi bruciassi”. Non sono mai più rientrato in squadra. A Walter, invece, diedero fiducia. In questo modo lui è diventato Zenga, e io sono diventato Nuciari, portiere di riserva”.
Così, per rivedere in campo l’eterno secondo, bisogna aspettare la primavera del 1987, quando Berlusconidecise di sostituire il “Barone” Liedholm con un “giovane” Fabio Capello. La stima fra il nuovo tecnico e il numero 12 c’è e si vede, al resto ci pensa un’uscita precipitosa in allenamento che procura a Giovanni Galli lo stiramento del legamento collaterale del ginocchio destro. Il risultato? Nuciari viene schierato titolare fra i pali per 4 gare di campionato consecutive. Quasi un record per lui. Giulio ricambia la fiducia di Capello con prestazioni pulite, senza sbavature. Il Milan vince e piega anche la Sampdoria nello spareggio che vale la Uefa. Sembra la prima, vera svolta della sua carriera. Ma se un cambio di allenatore l’aveva promosso, un’altra staffetta in panchina lo condanna di nuovo.
A fine stagione Capello si tira indietro e lascia la cabina di comando dei rossoneri ad Arrigo Sacchi. Il Milan va come un treno e visto che squadra che vince non si cambia Giulio rimane a cuocersi fra le riserve. Senza neanche una presenza. Nelle ultime 4 giornate il Napoli si suicida, portando a casa solo 1 punto sugli 8 disponibili. I lombardi ne approfittano inanellando una serie di vittorie che li porta in testa alla classifica. A 90 minuti dalla fine, con i partenopei che hanno abdicato da soli alla volata a due, il risultato del campionato sembra già scritto. Soprattutto perché la squadra di Sacchi deve far visita a un Como già salvo e battuto all’andata con un rotondo 5-0. Gullit dice di non essere tranquillo, Sacchi di voler concedere qualche minuto di gloria anche a Nuciari. “Se lo merita – dice il mister – speriamo che la partita ce lo permetta. Non è una frase fatta, penso sul serio che quella contro il Como sia la partita più difficile dell’anno. In 90 minuti ci giochiamo tutta una stagione”. E forse Sacchi ha anche ragione. Il Milan sbuffa, stenta, non convince. Giulio non si toglie neanche la tuta, osserva l’1 a 1 finale sotto i baffi neri. Alla fine parteciperà alla festa scudetto senza mai essere sceso in campo.
Dopo il tricolore, però, Nuciari decide di fare le valigie e salutare Milano. Ma non si sposta più di tanto. Si accasa al Monza, in Serie B. Tanto per non perdere la mano. Una discreta stagione fra i cadetti gli regala le chiavi della porta della Sampdoria. Anche se solo di quella sul retro. Per sette stagioni, infatti, il portiere di Piovene Rocchette sarà il vice-Pagliuca. Nei primi 3 anni porta in cascina solo 2 presenze. Poi, nel 1992-1993 ecco la svolta. A gennaio, durante la prima giornata di ritorno contro la Lazio, Pagliuca si fa espellere per proteste. La domenica successiva, contro l’Ancona, tocca a Nuciari. Il 3-1 finale in favore dei blucerchiati è merito anche dei buoni interventi del numero 12 che, naturalmente, torna subito ad accomodarsi in panchina. Almeno fino al 10 maggio del 1993. Come tutti i lunedì pomeriggio Gianluca Pagliuca imbocca l’autostrada Genova-Livorno per tornare a casa sua, a Bologna. La sua corsa, però, finisce una manciata i chilometri dopo il Capoluogo ligure. La sua Porsche è sulla corsia di sorpasso, un tir non se ne accorge e lo stringe. Pagliuca pigia forte sul freno e centra il guard rail. La macchina si cappotta e rotola per 200 metri. L’airbag gli salva la vita, una frattura scomposta alla clavicola sinistra gli toglie la porta per il resto della stagione. E qui rientra in scena Nuciari. Toccherà a lui, infatti, mantenere immacolata la porta della Samp nelle ultime 4 giornate, decisive per la qualificazione Uefa.
Un po’ la tensione, un po’ la ruggine seguita al lungo periodo di inattività forzata, fatto sta che il numero 1 per caso si trasforma da saracinesca a colabrodo. Nella quartultima giornata la Samp fa visita al Foggia di Zeman. Passano solo 3 minuti dal fischio dell’arbitro che Lanna passa indietro verso Nuciari. Il portiere carica il sinistro per il rilancio ma trova solo l’aria. Kolivanov è a pochi passi, guarda incredulo il portiere e appoggia in porta per l’1-0. La Samp prova a reagire ma Mancini sbaglia troppo sotto porta. Il buon Nuciari si trova spesso da solo contro gli attaccanti pugliesi e si supera con una serie di interventi che inchiodano il risultato. Purtroppo si tratta solo dell’1-0 per i padroni di casa. E visto che, a volte, il destino sa essere molto cinico, dopo la papera Giulio è costretto anche a sottoporsi all’esame antidoping.
Ma se contro la Juve, nonostante il pareggio finale, Nuciari riesce a non commettere errori, alla penultima di campionato, contro la Roma, ecco che portiere ne combina un’altra delle sue. Minuto 74, la Samp è in vantaggio grazie ad una rete di Invernizzi siglata al 43’ del primo tempo. Solito retropassaggio verso il portiere, Nuciari calcola la traiettoria e spara su Ivano Bonetti. La palla carambola sui piedi di Carnevale che spinge in rete il pareggio. Alla fine sarà un 2-2 (gol al 77’ di Rizzitelli e all’89’ di Mancini su rigore) che peserà come un macigno sulle spalle dei liguri. La qualificazione europea, infatti, si deciderà in casa del Brescia, a caccia di punti salvezza nell’ultima di campionato. E in Lombardia non c’è storia. Le “Rondinelle” si impongono con un pesante 3 a 1 buono sia per garantire la salvezza al Brescia, sia per consegnare l’ultimo posto Uefa al Cagliari. Una delusione amplificata dalla stampa che, in quelle settimane, l’aveva gridato chiaramente: “Una constatazione va fatta – scriveva la Stampa – senza l’incidente a Pagliuca la Samp sarebbe già in Europa”.
Insieme a quello sulla coppa, cala il sipario anche sulla carriera dell’eterno numero 12. Lo aspetta un futuro da preparatore dei portieri di Sampdoria, Milan, Cagliari, Ternana, Lazio e Inter. Nuciari, però, spera anche in qualcosa di più. “Mi piacerebbe fare l’allenatore – confessa – ho passato tanti anni insieme a mostri sacri come Liedholm e Sacchi, Castagner e Boskov. Invece di stare con l’orecchio alla radiolina li ho studiati. Credo di avergli rubato i segreti del mestiere”. E l’occasione della vita bussa alla sua porta nel 2001. In Serie B inCagliari naviga nelle acque tempestose della bassissima classifica. Il presidente Cellino decide di chiudere la pota in faccia all’allenatore Antonio Sala e di aprirla al preparatore dei portieri Giulio Nuciari. Il cambio in sella, però, non dà i risultati sperati e il 17 dicembre 2001, in seguito alla sconfitta di Cosenza, Nuciari viene esonerato dopo soli 2 mesi con un bottino di 2 vittorie, 3 sconfitte e altrettanti pareggi.
Comunardo Niccolai – Quando l’autogol diventa un’opera d’arte
Il primo calcio al pallone è un gol. Tutti i bambini del mondo hanno immaginato di segnare alla loro prima pedata. È proprio questo che ti frega e ti convince che sia lo sport più bello del mondo: sua Maestà il Gol. L’essenza del football sta tutta lì, in quell’attimo che divide inferno e paradiso. Soltanto dopo arriva il 4-4-2, la diagonale, il pressing e la preparazione atletica. Eppure tutti i bambini del mondo, anche crescendo, continuano a sognare quella sensazione da paradiso terrestre che solo una rete può darti. In molti altri però, col tempo, hanno dovuto obbedire agli ordini dell’allenatore e si sono accontentati di un ruolo diverso: provare almeno ad evitare l’inferno, indossando una maglia che va dall’1 al 6. Poi c’è qualcuno per cui le porte di inferno e paradiso si somigliano a tal punto da non poter esser distinte. Un nome su tutti: Comunardo Niccolai, un artista dell’autorete, un calciatore che è riuscito a rivoluzionarne il concetto stesso. Perché se è vero che esiste il gol alla Del Piero e il cucchiaio alla Totti, è altrettanto vero che l’autogol è alla Niccolai.
Stopper classe ’46 e Campione d’Italia con il Cagliari nel 1970, Niccolai (che partecipò anche alla spedizione italiana ai mondiali messicani dello stesso anno) veniva chiamato dai suoi compagni di squadra “Agonia”, per la sua magrezza ai limiti del patologico. Apparteneva a un calcio profondamente diverso da quello di oggi, in cui non esistevano mental coach pronti a psicanalizzare comportamenti e prestazioni individuali. Un bene per lui, altrimenti qualcuno pronto a curare il suo subconscio e il derivante conflitto con la figura paterna l’avrebbe trovato di sicuro. Già, perché suo padre era un portiere del Livorno e destino volle che, oltre ai tifosi, fossero proprio i portieri “di famiglia” a subire sulla propria pelle le conseguenze di quel suo istinto autolesionista.
La sua “impresa” più memorabile, considerata anche l’importanza della partita, risale al 15 marzo 1970. Quel giorno il Cagliari arriva al Comunale di Torino per difendere primato e vantaggio in classifica sulla Juventus. Il risultato non si schioda dallo 0-0 e allora ci pensa lui. Si lancia, uscendo dallo specchio della porta, su un innocuo traversone che arriva dalla destra, inarca la schiena proteso incontro alla sfera e, con un tocco soffice e beffardo, “spizza” la palla disegnando una traiettoria che sfila a pochi centimetri dal palo, prima che Albertosi possa realizzare l’accaduto e mandare al diavolo il suo numero 5. Non un inedito però: “Niccolai era la mia bestia nera – ricorda il portierone – , mi faceva gol tutti gli anni. Almeno un’autorete a stagione”. Poi ci penserà Riva a mettere al sicuro partita e scudetto (finirà 2-2 tra mille colpi di scena), ma “Rombo di tuono” ancora ricorda le prodezze di quel suo folle compagno di squadra: “Niccolai ne ha fatte poche di autoreti, però tutte belle. Lui non si sprecava alla deviazione, una volta ha driblato pure il nostro portiere per fare gol”.
È vero, il record degli “autobomber” è di Riccardo Ferri con 8 marcature, le 6 di Comunardo però hanno tutto un altro stile. E lui stesso le ricorda con orgoglio, senza l’ombra minima del pentimento: “Credo di averne segnati 5 o 6. Forse quello di Bologna fu più bello degli altri: evitai anche il portiere, Albertosi, e feci un gol da attaccante puro. Ne segnai uno anche nella ‘partita Scudetto’ contro la Juventus, uno a Catanzaro nella 300ª gara arbitrata da Concetto Lo Bello, uno a Perugia, uno contro la Roma e uno a Firenze, ma quella volta non avevo davvero nessuna colpa perché il portiere, al posto di parare, abbassò il braccio e la palla mi rimbalzò addosso. D’altra parte, i miei interventi erano spesso un po’ spericolati e capitava che arrivassi sulla palla scoordinato”. Già, capitava.
Inoltre leggenda vuole che quando Scopigno, suo allenatore al Cagliari, lo vide inquadrato alla tv durante gli inni nazionali esclamò: “Tutto mi sarei aspettato meno che vedere Niccolai in mondovisione”. Giampaolo Murgia, giornalista che vide quella partita con il mister, ha sempre fornito una versione diversa dell’accaduto, se possibile anche più crudele: “In realtà, Scopigno non pronunciò la famosa frase. Ero con lui nella sede sociale di via Tola. Prima del fischio d’inizio si videro gli azzurri schierati uno dopo l’altro. Quando fu la volta di Nascondereiccolai, Scopigno, che era seduto, si alzò e per un attimo spense il televisore borbottando: ‘Ma si può?!’. Una battuta per nascondere commozione e… orgoglio. Niccolai era il cucciolo della compagnia, il suo pupillo”.
Se gli chiedete qualche ricordo particolare dei suoi anni di carriera vi risponde così: “Un giorno uno mi chiese: ‘Come va?’. E io: ‘Si tira avanti’; intervenne il dottor Fronzi, medico della squadra: ‘Mi sembra che tiri indietro, te!’. Sono passati più di trent’anni, ora ci rido su, ma allora quegli autogol erano un dramma, sembrava ne segnassi 10 a stagione… Però feci anche 4 reti dalla parte “giusta”, di cui una contro la Fiorentina: nella porta viola c’era Albertosi… Certo, mi piacerebbe essere ricordato per il Mondiale ’70, per lo scudetto a Cagliari o per la carriera da allenatore, ricca di soddisfazioni (ha allenato la nazionale femminile di calcio nel biennio ‘93/’94, ndr). Ma l’importante, in fondo, è essere ricordati: grazie agli autogol, la mia fama va al di là di quella di altri colleghi molto più bravi di me”. E sapete perché? “I miei gol fanno invidia agli attaccanti, tanto sono belli”.